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di Ann Weiser Cornell, PhD
(documento presentato alla 13° International Focusing Conference, Irlanda, Maggio 2001)
traduzione di Emmy Parisi

Riassunto

Si esaminano quali sono gli scopi dell’ascolto e si esegue un confronto tra lo scopo dichiarato di Rogers, come “riflesso delle emozioni”, e lo scopo di Gendlin, come riflesso in una sessione che includa il Focusing. Dell’ascolto vengono individuati tre scopi, che corrispondono a tre modi in cui l’ascolto facilita il processo del Focusing. L’ascolto viene definito quindi come il pronunciare una affermazione che ripete ciò che l’altra persona (focuser, cliente, partner) ha appena detto, esattamente o con una parafrasi, senza nessuna intenzione di cambiare o aggiungere nulla di essenziale, e neppure di apportare alcuna modifica all’esperienza dell’altro. L’ascolto, così come è definito in questa sede, non consiste nel porre domande o proporre suggerimenti. Si mette in evidenza che la forma linguistica delle risposte durante l’ascolto cambia con il cambiare dello scopo. Si esplorano alcune forme linguistiche che fanno si che l’ascolto sia efficace e raggiunga i suoi tre scopi. Si conclude osservando che quando l’ascolto viene usato con sensibilità ed abilità, non è necessario guidare chi focalizza o lo si fa solo in piccola parte, in special modo tra compagni di focusing.

Lo scopo dell’ascolto

Perché mai dovremmo ripetere quello che qualcun altro ha detto? Nella vita quotidiana, ripetere le parole di un’altra persona ti può procurare un’occhiata adirata come  una riconoscente. Eppure, nello speciale mondo della terapia e del counseling orientato al Focusing, ed ancor più nel circoscritto mondo di chi pratica in coppia, la ripetizione è la chiave, l’essenza, il sine qua non. Perché?

Carl Rogers non è stato il primo a ripetere le parole dei clienti, ma è colui che ne ha fatto una tecnica molto nota, insegnata in corsi di counseling e praticata in tutto il mondo. Nel corso della sua vita, la tecnica chiamata “riflesso dei sentimenti” venne usata così ampiamente, e in molti casi fu così mal interpretata, che per reazione i detrattori facevano il verso ai terapisti che si limitavano a ripetere le parole del cliente. Replicando a questa reazione, Rogers (che nel 1980 scrisse che la parola “riflettere” era arrivata a farlo sentire “umiliato”) chiarì gli scopi insiti nel ripetere le parole di qualcun altro:

Sono arrivato ad un doppio insight. Dal mio punto di vista come terapista, non sto cercando di “riflettere emozioni”, bensì sto cercando di determinare se la comprensione che ho del mondo interiore del cliente è corretta – se vedo come lui o lei sta sperimentando in questo momento. Ognuna delle mie risposte contiene la domanda, non pronunciata, “È questo il modo in cui quello che mi stai dicendo è presente in te? Sto davvero cogliendo il colore, la consistenza, il profumo dell’esperienza densa di significato personale che stai vivendo proprio ora? Se non è così, desidero portare la mia percezione in linea con la tua.”

D’altra parte, so che, dal punto di vista del cliente, noi stiamo sostenendo uno specchio in cui si riflette l’esperienza che è in corso in lui. Le emozioni e i significati personali appaiono più acuti quando sono visti attraverso gli occhi di un altro, quando vengono riflessi. (1986b)

Quindi Rogers vide che lo scopo del terapista nel praticare l’ascolto era quello di fare una verifica insieme al cliente per essere sicuro che la sua comprensione combaciava o corrispondeva al “mondo interiore” del cliente. Nello stesso tempo, egli capì che il cliente riceveva qualcosa di più dal vedere riflessi i propri “sentimenti e significati personali”, qualcosa in più di quanto potesse essere previsto a partire dalla semplice attività di verificare la comprensione.

Eugene Gendlin, che fu allievo di Rogers, si interessò a quello che egli chiamava “il lato del cliente nel processo terapeutico”. (1984) Egli si interessò al perché alcuni clienti venivano aiutati dalla terapia molto più di altri. Una parte importante di questa questione era capire perché alcuni clienti erano più capaci di altri di ottenere effetti benefici dal riflesso, che il terapista attuava, delle loro “emozioni e significati personali”.

Cosa pensiamo che ne farà il cliente di una risposta nata dall’ascolto?

Noi speriamo e presumiamo che i clienti verificheranno la risposta, non rispetto a quanto essi hanno detto o pensato, ma rispetto a un qualcosa, un qualche luogo, un datum interiori… il felt sense, “la sensazione sentita”; non disponiamo di nessuna parola ordinaria per questo.

A questo punto potrebbe percepirsi un effetto, un allentamento interno, una risonanza. Quello che sembrava essere là è stato espresso ed udito. Non c’era bisogno di dirlo. Per alcuni momenti si verifica un senso di sollievo interiore. (In termini teorici, la risposta interpersonale “lo ha portato avanti“.) Subito dopo sopraggiunge qualcos’altro. Quello che era là viene fuori ed il processo continua.

Noi speriamo che i clienti facciano una verifica non solo con quello che diciamo noi, ma anche con ciò che essi dicono, rispetto a quel qualcosa interno. (1984, p. 42)

Gendlin chiamò ciò con cui il cliente ha bisogno di fare la sua verifica il “felt sense”. Egli fu il primo ad identificare e a dare un nome a questo movimento essenziale: il cliente verifica quello che sorge con qualcosa di interno, percepito direttamente. La sua ricerca mostrò che questa verifica faceva la differenza tra fallimento e successo nella terapia. (Che Rogers fosse colpito da Gendlin è mostrato dal fatto che, scrivendo sull’empatia nel 1980, egli cita il lavoro di Gendlin come chiave per l’efficacia dell’empatia.)

Gendlin ha modificato lo scopo dell’ascolto da parte del terapista. Per Rogers, lo scopo per il terapista era quello di verificare la propria comprensione. Per Gendlin, lo scopo dell’ascolto consiste nel supportare il cliente nella sua verifica interiore, nella sua verifica con quel “qualcosa” interiore. Le parole usate da Rogers per esprimere l’atteggiamento del terapista verso il cliente ora si adattano all’atteggiamento del cliente nel ripresentare parole e immagini al “felte sense”.

“È questo il modo in cui quello che tu dici è presente in te? Sto davvero cogliendo il colore, la consistenza, il profumo dell’esperienza personale significativa che stai vivendo proprio ora? Se non è così, desidero portare la mia percezione in linea con la tua.”

Presenza

Non ci sono dissensi su questo insight fondamentale: l’atteggiamento è molto più importante della tecnica. Rogers rimase sgomento quando il suo approccio non direttivo fu ridotto ad una tecnica di riflesso delle emozioni e reagì presentando l’empatia come un atteggiamento o un “modo di essere” piuttosto che come qualcosa che si “fa”. Edwin McMahon e Peter Campbell, stimati ed influenti insegnanti di focusing che mettono l’accento sull’aspetto amorevole e gentile del Focusing, affermano quanto segue:

Ricordate, il dono più grande che possiamo offrire a qualcuno che accompagniamo nel focusing è una presenza attenta e non manipolatrice. La tecnica può essere di grande aiuto, ma a lungo termine ha poche conseguenze se manca questo senso di presenza. (1991, p. 21-22)

Non c’è alcun dubbio sul fatto che l’ascolto (il riflesso) non deve essere eseguito come una tecnica, ma come espressione di un atteggiamento di presenza con e per il cliente. D’altro canto, è per noi evidente che l’ascolto è un modo senza eguali di esprimere l’atteggiamento di una presenza non giudicante.

Una presenza umana salda e sicura che desidera stare con qualsiasi cosa emerga è un fattore potentissimo. Se non cerchiamo di migliorare o di modificare alcunché, se non aggiungiamo nulla, se, per quanto negativo questo qualcosa sia, noi ci limitiamo a dire esattamente ciò che comprendiamo, una tale risposta aggiunge la nostra presenza e aiuta il cliente a stare con qualsiasi cosa egli percepisca e senta proprio in quel momento, e ad andare oltre. Questa è forse la cosa più importante che chiunque aiuti gli altri ha bisogno di sapere. (Gendlin, 1996, p. 11)

Esprimere una presenza non giudicante è il secondo scopo dell’ascolto.

La relazione interna

Il mio lavoro, che si basa su quello di Gendlin, ha aggiunto uno scopo in più all’ascolto. Oltre al supportare il cliente nella sua verifica interna, e all’esprimere la propria presenza non giudicante, il terzo scopo dell’ascolto consiste nel sostenere il cliente nel facilitare e mantenere una relazione interna positiva con il “qualcosa” che è lì per lui.

Benché Gendlin non menzioni come l’atto del riflettere possa supportare questa relazione interiore, egli ha eloquentemente descritto la relazione stessa:

Il cliente ed io, noi, siamo lì, a tenergli compagnia. Proprio come si tiene compagnia ad un bambino spaventato. Non faremmo pressioni su di lui, né discuteremmo o lo riprenderemmo, perché è troppo dolente, troppo sgomento o teso. Semplicemente, ci metteremmo a sedere lì, quietamente… Quello di cui quel luogo interiore ha bisogno per generare i passi di cambiamento è solo un qualche tipo di contatto o di compagnia che sia non intrusiva. Se andate da lui con la vostra consapevolezza e state lì, o ritornate lì, questo è tutto ciò che serve e farà tutto il resto per voi. (1990, p. 216)

Questo “contatto non intrusivo” che Gendlin descrive non è neanche una verifica, è molto più semplice. È molto più un “essere” che un “fare”. Si può tenere compagnia a qualcosa, dentro, che è perfino “troppo dolente, troppo sgomento o teso” per essere verificato. E non sarà solo, nè principalmente, la compagnia del terapista. È l’io del cliente che tiene compagnia al “questo” del cliente. (Gendlin, 1990, p. 222: “Il Focusing è questa cosa molto deliberata in cui un “io” presta attenzione ad un “questo”.)

Abbiamo parlato della presenza del terapista. La capacità del cliente di stare con quello che c’è, senza confondersi con la sua esperienza ma Presente ad essa, può essere chiamata la Presenza del cliente. (Per distinguere le due, userò l’ iniziale maiuscola per la parola “Presenza” quando si riferisce alla Presenza interiore del cliente con quello che è lì per lui. Barbara McGavin mi ha insegnato ad usare la parola Presenza in questo modo e mi ha fatto comprendere molte cose su questo bellissimo concetto. È sua anche molta parte del mio lavoro sulla Relazione Interna.)

Sostenere questa capacità di tenere compagnia a partire dalla Presenza è il terzo scopo dell’ascolto.

Gli scopi dell’ascolto: ricapitolazione

Possiamo dire che sono  tre i modi in cui l’ascolto aiuta il processo del Focusing nel cliente. Questi corrispondono ai tre scopi insiti nell’uso del riflesso durante l’ascolto.

(1)     Pratichiamo l’ascolto per supportare il cliente mentre verifica  quello che arriva con qualcosa di interno, percepito direttamente.

(2)     Pratichiamo l’ascolto per offrire la nostra presenza non giudicante al processo del cliente.

(3)     Pratichiamo l’ascolto per sostenere il cliente nel suo “tenere compagnia” a partire dalla Presenza a qualcosa di interno.

Definizione: cosa è l’ascolto?

La parola “ascolto” ha molti significati e molti usi. In questa esposizione, viene usata nel suo senso tecnico e specifico del fare una affermazione che ripete quello che l’altra persona (focuser, cliente, partner) ha appena detto, esattamente o con una parafrasi, senza alcuna intenzione di cambiare o aggiungere alcunché di essenziale né di apportare modifiche nell’esperienza dell’altra persona.

Colui che ascolta ripete a chi focalizza (cliente) qualcosa che ha lo scopo di “dire quello che l’altro ha appena detto”. Ed è nella forma di una affermazione. Benché di solito non sono solamente le esatte parole dette, anche quando le parole sono differenti formalmente, non lo sono nella sostanza. L’ascoltatore non aggiunge niente, non vengono date opinioni, né si ha l’intenzione di modificare nulla.

Vorrei fare il caso in cui il processo dell’ascolto non include il porre domande, neppure con il tono di voce. Sono cosciente del fatto che non tutti gli insegnanti di Focusing sarebbero d’accordo con me su questo, e rispetto la loro opinione e il loro lavoro. Tuttavia, questa è stata la mia esperienza: quando la risposta dell’ascolto include un tono di domanda, colui che focalizza tende ad essere distolto dal contatto diretto con il suo processo, verso un contatto con colui che ascolta. Il caso classico è quello in cui colui che focalizza ha gli occhi chiusi fino al momento della domanda dell’ascoltatore e, dopo aver sentito la domanda, apre gli occhi e guarda l’ascoltatore. Naturalmente se colui che focalizza vuole aprire gli occhi e guardare l’ascoltatore non c’è niente di male! Ma è un peccato se colui che focalizza viene distolto da un contatto interiore che per il resto sta andando bene perché l’ascoltatore ha strutturato il suo riflesso in una domanda. Ciò va contro uno dei più importanti scopi dell’ascolto: esso facilita colui che focalizza a stare in rapporto con qualcosa di interno.

Inoltre, la natura delle domande è tale per cui, a meno che non siano formulate con attenzione, esse possono suonare come se quello che viene chiesto non riguardasse la correttezza di una parola, ma il fatto che colui che focalizza sia nel giusto a sentire o pensare in quel dato modo. Un esempio impressionante è quello tratto da Everyday Genius, di Kevin Flanagan:

Paula: No, non ci riesco… sembra proprio che si ripieghi dentro… non ho più lo stomaco per questo. Forse sono una codarda.

Ascoltatore: Una codarda? (p. 153)

La linguistica dell’ascolto

Mentre lo scopo dell’ascolto si è evoluto, così ha fatto anche la forma. Quando lo scopo primario dell’ascolto è quello di verificare la comprensione che il terapista ha del cliente, come era per Rogers, le parafrasi sono meglio dei riflessi parola per parola.

Jan:    Eppure la gente mi dice: “Jan, non potresti stare meglio di così. Hai tutto quello che puoi          desiderare!” E sanno così poco di quello che ho dentro.

Carl:   Giusto. Per cui, dal di fuori e per un osservatore, non potresti stare meglio di così ed hai tutto quello che puoi desiderare. Ma questo non è quello che Jan ha dentro. Quello che Jan ha dentro è del tutto diverso.

Ma, una volta che si è consapevoli del Focusing, allora, in quei momenti, quando percepiamo che il processo del focusing sta avendo luogo all’interno del cliente, diviene più importante ripetere le parole chiave che lui ha usato in modo che egli possa verificarle dall’interno. In effetti, quanto più il cliente è in contatto con quel qualcosa che ha dentro, e quanto più profondo e ravvicinato è il suo contatto, tanto più sono necessarie le parole esatte, sulle quali può perfino darsi che il cliente, rafforzato, insisterà.

C: Riesco a malapena a toccarlo. C’è qualcosa, ed è proprio qui, sul margine. Riesco a malapena a toccarlo; è – non posso volere mia madre, riesco a dirlo a stento.

T:     Non puoi volerla. (Silenzio)

C:    È dove sento quel rumore come di frecce. (Ancora silenzio.) È davvero, veramente antico.

T:    Si sente come una esperienza molto antica. (Silenzio)

C:    Non posso volere niente. (Silenzio…) Questo ha bisogno di riposare e non può riposare. Se si lascia andare e riposa, morirà. Deve tenere alta la guardia.

T:    C’è un così grande bisogno e un così grande desiderio di riposare e di lasciare andare e di provare sollievo; ma in qualche modo allo stesso tempo questa parte di te non può riposare. Questo sente che morirà se smette di stare in guardia. (Silenzio…)

C: Può darsi che potrebbe, se io potessi fidarmi di qualcosa.

T:    Potrebbe riposare se tu potessi fidarti di qualcosa.

C:    No, No, PUO’ DARSI che potrebbe riposare se io potessi fidarmi di qualcosa.

T:    È importante dire “può darsi”. “Può darsi che potrebbe riposare se io potessi fidarmi di qualcosa.” (Gendlin, 1990, p. 219)

Ma, naturalmente, il cliente non è sempre in contatto profondo e ravvicinato con quello che ha dentro. Allora? Nel resto di questa esposizione esploreremo alcune forme linguistiche che fanno si che l’ascolto sia efficace e raggiunga i suoi tre scopi. Va da sé che qualsiasi discorso sulla forma linguistica presume che l’atteggiamento dell’ascoltatore sia un atteggiamento di presenza incondizionata o, almeno, l’atteggiamento di chi riconosce le parti di sé che non sono in grado di essere presenti incondizionatamente. Il tono della voce, il ritmo e il senso dei tempi sono parimenti importanti ma non rientrano nell’ambito di questo studio.

Alcuni sostengono che, una volta che è presente l’atteggiamento incondizionato dell’ascoltatore, non ha importanza quali siano le parole che vengono usate. Non sono d’accordo. Solo perché l’atteggiamento e la presenza sono più importanti delle parole non significa che queste siano irrilevanti. Vi sono alcuni che sentono che porre l’attenzione conscia alla scelta delle parole modifica la relazione tra l’ascoltatore e colui che focalizza, rende l’ascoltatore in qualche modo non autentico o manipolatore. Con tutto il rispetto, non sono d’accordo. Posso comprendere il problema e in alcuni casi lo condivido: nutro una antipatia di lunga data verso le tecniche di costruzione dei rapporti (come nella Programmazione Neurolingustica) dove, ad esempio, il terapeuta respira consciamente al ritmo del cliente. Personalmente credo che, nella maggior parte dei casi, si può avere fiducia nel fatto che voce, ritmo e tempi giusti nelle risposte sorgono naturalmente dalla presenza dell’ascoltatore. Ma se prendiamo in considerazione le parole, credo che possiamo allo stesso tempo essere consapevoli nello scegliere parole che siano di aiuto ed essere in un atteggiamento di presenza con il cliente. I suggerimenti che seguono vengono offerti in quest’ottica. Non è affatto un elenco completo di tutte le forme di ascolto facilitanti, ma sono semplicemente quelle che trovo più interessanti da un punto di vista linguistico.

Il potere di “qualcosa”: richiamare l’attenzione sull’esperienza percepita

Quando si focalizza si ha bisogno di percepire in uno spazio interno. Quando la risposta dell’ascoltatore include la parola “qualcosa” usata in modo appropriato, ciò aiuta a creare un luogo all’interno di chi focalizza che può essere percepito. La parola “qualcosa” è un invito ad essere consapevoli di un luogo che è già implicito; pertanto l’espressione “creare un luogo” della frase precedente non è del tutto giusta. Allo stesso tempo, fino a quando la parola “qualcosa” indica quel luogo, è come se esso non fosse ancora là. Quindi sono vere entrambe le cose.

Come possiamo aiutare una persona a trovare e a prestare attenzione a quell’oscuro margine nella zona di confine tra conscio ed inconscio? Un modo è rispondere in maniera da rivolgersi verso un oscuro “qualcosa”. (Gendlin 1996, p. 47)

C3:Ho fatto un sogno… ero da sola con questo tipo, ah (silenzio)… e il sogno era proprio bello, era un rapporto davvero bello. Quando il giorno dopo ci ho pensato su, ho pensato: perché non ne ho uno vero! Non credo che egli potesse vedere qualcosa di sbagliato in me. Pensavo anche, perché mi mostravo così assente a scuola ? Quando arrivo alla fine, mi succede che non completo il mio compito e mi tiro indietro. Divento nervosa e fuggo dalla situazione.

T3:Stai dicendo che c’è qualcosa di simile in queste due cose.

C4:Sì, ho tutte queste scuse sul perché non faccio mai del mio meglio, uh –

T4:Arrivi fino alla fine e poi qualcosa si tira indietro. (pp. 41-42, corsivo mio)

Gendlin mette in evidenza che il terapista avrebbe potuto fare il riflesso senza fare riferimento a “qualcosa”. T3 avrebbe potuto essere “non consegnare il compito è come non riuscire con un uomo” – il che si qualifica sicuramente come comprensione di quello che il cliente sta dicendo. Quindi, questo “fare riferimento a qualcosa” è una particolare mossa del Focusing, basata sulla nostra consapevolezza di come sia potente il trovarsi in  un margine oscuro, di fronte ad una esperienza indistinta non ancora completamente descritta, che è come una porta aperta sullo scoprire.

F: Non c’è niente altro che posso fare su questo.

L: C’è qualcosa in te che sente che non c’è niente altro che puoi fare su questo.

F: Non voglio avvicinarmi in nessun modo a questa cosa.

L: C’è qualcosa in te che non vuole avvicinarsi in nessun modo a questa cosa.

Ripetere quello che c’è; non ripetere quello che non c’è

È ovvio che colui che focalizza può sentire solo quello che è lì per lui; non può sentire quello che non è lì. Eppure le persone parlano tutto il tempo di esperienze che non stanno avendo o che non sono in grado di avere.

“C’è anche qualcosa di vago. Non riesco a cogliere cosa è.”

“Non so da dove spunti questo, ma ho la sensazione che questa parte di me abbia bisogno di sostegno.”

“Non sono sicuro di come descrivere questa sensazione che ho nella gola.”

Suggerisco che il modo di sostenere il processo del focusing consiste nel ripetere quello che è là, e di lasciare fuori quello che non c’è.

F: C’è anche qualcosa di vago. Non riesco a cogliere cosa è.

L: Stai sentendo qualcosa che è vago.

F: Non so da dove spunti questo, ma ho la sensazione che questa parte di me abbia bisogno di sostegno.

L: Hai la sensazione che questa parte di te abbia bisogno di sostegno.

Quando chi focalizza non usa una certa parola per indicare quello che c’è, ed eppure qualcosa chiaramente c’è, l’ascoltatore può fornire la parola “qualcosa” per indicare quello che c’è.

F: Non sono sicuro di come descrivere questa sensazione che ho nella gola.

L: Stai percependo qualcosa lì, in gola.

Riflettere ciò che è nuovo e positivo

Tutto quello che è recente, nuovo, quello che commuove, ha sempre bisogno di sostegno. L’ascoltatore offre questo sostegno semplicemente ripetendo quella parte.

La seguente sequenza si è verificata in una sessione di lavoro in coppia tra due praticanti di focusing esperti:

F: [Qualcosa qui] ha bisogno di riposo. E ha bisogno di privacy. È forte – non vuole essere visto o entrare in relazione.

C: Non vuole entrare in relazione o essere messo in relazione.

F: Potrebbe essere toccato gentilmente, ma non vuole parlare. Non vuole dover rispondere.

C: Sei consapevole di qualcosa che potrebbe essere toccato, solo quanto è possibile. Toccato gentilmente.

Il compagno, Chris McLean, in seguito ha detto: “Ho scelto questa parte da rispecchiare – il toccare – anche se l’ultima cosa che chi focalizzava aveva detto era ‘Non vuole parlare. Non vuole dover rispondere’. Credo di aver percepito un movimento in tutta la cosa, un movimento in avanti. Eravamo già stati con quella parte che non voleva rispondere e qui c’era questa cosa nuova, così ho riflesso proprio quella.”

Spesso, ciò che è nuovo e positivo può essere trovato non tanto nelle parole che letteralmente ha detto chi focalizza, ma piuttosto nelle implicazioni positive di una affermazione negativa. In questi casi si può formulare una frase che significa la stessa cosa detta da chi focalizza, una parafrasi, ma senza alcun “non” in essa. (Con i termini “positivo” e “negativo” indico solo un fatto linguistico, se nella frase è presente o meno un “non”. Non sto valutando in nessun altro modo l’affermazione.)

F: Non sa come tranquillizzarsi.

L: Vuole trovare un modo per tranquillizzarsi.

Ecco un altro esempio:

A: … la mia consapevolezza ritorna sulla donna nel campo di battaglia per invitarla a sentire quello che anche lei vorrebbe. E lei dice “Non mettetemi fretta. Non ho ancora finito.”

B: Già, lei ha qualcosa da fare prima. Non ha ancora finito con qualcosa.

Qui l’ascoltatore ha riformulato la frase “Non mettetemi fretta. Non ho ancora finito” come “Lei ha qualcosa da fare prima”. Questo ha messo in luce il positivo (vale a dire ciò che non contiene un “no” o un “non”) all’interno del negativo. L’ascoltatore ha ripetuto quindi più fedelmente le parole di chi focalizzava (“Non ha ancora finito con qualcosa”) perchè fosse sicuro che erano state ascoltate.

Disidentificazione

Non rischio di esagerare sottolineando l’importanza della disidentificazione. Abbiamo già parlato del potere della Relazione Interna e dell’atteggiamento di Presenza verso ciò che percepisce, del praticante di focusing. La disidentificazione è la  chiave principale per aprire il grande regno della Presenza.

Gendlin dice, “Il Focusing è questa cosa molto deliberata in cui un ‘io’ presta attenzione ad un ‘questo’.”

“Voglio correre.”

“Ho paura che non riuscirò mai a comunicare con lui.”

“Voglio andare e non voglio andare.”

“Non sembra che io mi piaccia molto.”

Non c’è nessun “questo” in queste frasi e non sappiamo se nella consapevolezza della persona è presente un “questo” non pronunciato – forse no. Senza un “questo” nella consapevolezza, il focusing è spesso più difficile, quindi chi ascolta può facilitare il processo del focusing offrendo un candidato per il “questo” che chi sta focalizzando può prendere in considerazione.

Ecco un modo per farlo:

F: Voglio correre.

L: C’è un desiderio di correre.

“Io voglio” è diventato “c’è un desiderio” e quindi più un “questo” in cui sentire.

La nostra parola preferita, “qualcosa”, ci offre un altro modo:

F: Ho paura che non riuscirò mai a comunicare con lui.

L: Qualcosa in te ha paura che non riuscirai mai a comunicare con lui.

Quando chi pratica focusing sta esperendo chiaramente delle parti, allora probabilmente apprezzerà il fatto di ricevere un riflesso che usa l’espressione “una parte di te”.

F: Voglio andare e non voglio andare.

L: Una parte di te vuole andare e una parte di te non vuole.

Questa chiara separazione di parti può avere un valore speciale quando chi sta focalizzando è bloccato in un conflitto interno.

F: Non mi sembra che io mi piaccia molto.

L: C’è qualcosa in te a cui non piace molto qualcosa di te.

Fritz Perls ed il “soggetto vuoto”

Coloro che hanno studiato con Perls (padre della terapia Gestalt) o con i suoi allievi a volte restano sorprese dell’amore di chi pratica il focusing per questa piccola parola “questo” (it in inglese,ndt). Perls è famoso per la sua insistenza sul fatto che i suoi allievi si appropriassero dei loro sentimenti, usando la parola “io” in circostanze in cui in precedenza usavano un soggetto impersonale (it in inglese, ndt). “E’ triste” sarebbe diventato “io sono triste”, “è deprimente” sarebbe diventato “io sono depresso” e così via.

Alcune persone mi hanno detto, “Sto lavorando duramente per diventare padrone dei miei sentimenti, ed ora sembra che tu voglia da me che io torni indietro ed usi di nuovo un soggetto impersonale!” La mia risposta è che sono felice che abbiano imparato ad essere padroni dei loro sentimenti – e che ora desidero che vadano, non indietro, ma ancora più avanti. Il soggetto impersonale, usato per disconoscere i sentimenti, che Perls ed altri giustamente non amano, non è il “questo” del focusing.

Nella struttura della lingua inglese, ogni frase richiede un soggetto. Alle frasi che descrivono processi in cui non c’è una persona ad agire, vengono dati dei soggetti “vuoti”: “Sta piovendo”. “È buio fuori”. In questi casi, il soggetto neutro, il questo (“it” in inglese; ndt), non significa niente, non si riferisce a niente. Senza di esso, queste frasi avrebbero lo stesso significato – “Piovendo”. “Buio fuori”. Ma non si reggerebbero grammaticalmente.

Si può far uso di questo “soggetto vuoto” per prendere le distanze da sentimenti ed opinioni, rendendoli impersonali come il tempo.

“È interessante.”

“È pauroso.”

“È impressionante.”

“È opprimente.”

“È deprimente.”

Ognuna di queste frasi dà l’illusione che ciò che viene detto non riguardi chi parla, ma qualche condizione a lui esterna. Posso dire che il libro era interessante, il film era pauroso, il ponte era impressionante, il compito era opprimente e la perdita era deprimente, ma , in realtà, in ogni caso sto parlando dei miei sentimenti, sono io che sono interessato, impaurito, impressionato, oppresso, depresso.

Ma un tale “soggetto vuoto” non è il “questo” del focusing perché il “questo” del focusing si riferisce a qualcosa di percepito come esperienza interiore. Non è vuoto. Ha un riferimento. Per cui se inizio dicendo “È spaventoso” e poi mi approprio del mio sentimento dicendo “Sono spaventato”, andrei avanti quindi in un modo che è proprio del focusing, percependo l’essere impaurito nel mio corpo e dicendo, forse, “Percepisco nello stomaco qualcosa che è teso. È spaventato.” “E’ spaventoso” – soggetto impersonale – è diventato “Io sono spaventato” – sentimento posseduto – che è diventato “Questo è spaventato” – qualcosa con cui stare come si fa nel focusing.

Certamente non vogliamo tornare indietro, e trasformare il “questo” di un praticante di focusing di nuovo in un “tu” di identificazione.

F:    “Questo punto nello stomaco è arrabbiato.”

Sconsigliato: “Tu sei arrabbiato”.

Preferibile: “Quel punto nello stomaco è arrabbiato”.

Il “qualcosa” è vivo

In precedenza, abbiamo riportato una sessione con un cliente tratta da Eugene Gendlin (1990) come esempio di come il terapista segua molto da vicino le parole del cliente quando chi focalizza è in contatto profondo con qualcosa dentro. Ma, in questo esempio, c’era un punto in cui il terapista variava le parole del cliente, leggermente e in modo significativo.

C:    Non posso volere niente. (Silenzio…) Questo ha bisogno di risposare e non può riposare. Se si lascia andare e riposa, morirà. Deve tenere alta la guardia.

T:    C’è un così grande bisogno e un così grande desiderio di riposare e di lasciare andare e di provare sollievo; ma in qualche modo allo stesso tempo questa parte di te non può riposare. Questo sente che morirà se smette di stare in guardia. (Silenzio…)

Quello che l’ascoltatore ha fatto ha, in qualche modo, dato vita ad una parte . Dove il cliente ha detto “Questo morirà…”. l’ascoltatore ha risposto “Questo sente che morirà.” “Questo morirà” avrebbe potuto essere una descrizione esterna, una affermazione oggettiva. L’ascoltatore risponde dall’interno di un “questo vivente”, dal punto di vista del “questo”.

Via via che la sessione di focusing procede, il “qualcosa” oggetto di consapevolezza spesso assume sempre più le qualità dell’essere vivo. Idealmente, chi ascolta riconosce che si sta verificando questo processo e risponde in un modo che sostiene queste qualità dell’essere vivo.

F:    Questo è stanco. Non vuole parlare.

L:    Questo ti sta facendo sapere che è stanco e non vuole parlare.

Chi sta dicendo ciò?

La teoria linguistica ci dice che ogni frase pronunciata si colloca nel tempo e nello spazio ed è diretta sia a chi la pronuncia sia a chi ascolta. Questa è la ragione per cui possiamo usare parole relazionali come “io”, “tu”, “ora”, “allora”, “qui”, ecc. e vederle comprese, anche se “io” si riferisce a me quando la uso io e a te quando la usi tu. Se non sappiamo chi ha detto la frase ( o dove o quando), allora non sappiamo cosa o chi indichino queste parole.

Il modo più ovvio in cui ciò si applica alla linguistica dell’ascolto è che cambiamo queste parole relazionali quando ripetiamo le frasi di chi focalizza.

F:Qualcosa in me è arrabbiato.

L:Qualcosa in te è arrabbiato.

F:Sto sentendo una pesantezza proprio qui.

L:Stai sentendo una pesantezza proprio li.

Anche se, visto che siamo parlando allo stesso momento di chi focalizza non abbiamo bisogno di cambiare le parole che si riferiscono al tempo.

F:Ora inizia a cambiare.

L:Ora senti che inizia a cambiare.

Vi sono alcuni praticanti dell’ascolto che non cambiano affatto le parole dell’altro. A me sembra molto strano, ma posso capirlo se immagino che l’ascoltatore sta ripetendo le parole di chi focalizza tra virgolette.

F:Qualcosa in me è arrabbiato.

L:”Qualcosa in me è arrabbiato.”

È vero che talvolta chi focalizza dice parole che suonano così potenti e piene di significato che esitiamo a cambiarle, anche di una virgola. Quando questo accade, preferisco rendere esplicite le virgolette dicendo qualcosa come “Quello che succede ora è che…” o “Le parole che vengono sono…”

F:Non devo mai più sopportare questo!

L:Le parole che vengono sono: “Non devo mai più sopportare questo!”

A volte chi ascolta sente che suonerebbe strano ripetere le parole di chi focalizza. Di solito questo accade nei casi in cui, se non usasse preamboli, sembrerebbe che l’ascoltatore stia manifestando di essere d’accordo con quello che chi focalizza sta dicendo. Invece di descrizioni di emozioni o sensazioni corporee, si tratta di solito di affermazioni di valore. Raramente c’è un “margine” per sentire in una affermazione di questo tipo. Spesso viene fuori da una parte a cui piacerebbe chiudere una porta, piuttosto che aprirne una. Quindi, è utile che l’ascoltatore segnali quella parte, quella che sta parlando, usando “qualcosa”: la nostra parola preferita per indicare quei margini dove è possibile sentire.

F:Non è possibile fare niente con persone così.

L:Qualcosa in te dice: “Non è possibile fare niente con persone così.”

Ogni qual volta sia chiaro che le parole arrivano da una parte, da qualcosa dentro, non dall’Io di chi focalizza, è particolarmente utile mettere le parole di chi focalizza tra virgolette e dichiarare chi le sta dicendo. “Qualcosa in te dice” in genere è utile se la parte non è identificabile. Ma a volte si riesce ad indovinare chi sta parlando:

F:    Sento questa parte di me che è così… arrabbiata, credo. Come un bambino piccolo che odia tutti.

L:    Quella parte di te si sente come un bambino piccolo che odia tutti.

F:    Lontano da me!

L:    È come se quel bambino dicesse: “Lontano da me!”

Presenza che ascolta

Abbiamo detto che il terzo scopo dell’ascolto consiste nel sostenere chi focalizza nel suo “fare compagnia” a qualcosa di interno a partire dalla Presenza. Abbiamo parlato dell’importanza della disidentificazione e di come le risposte che nascono dall’ascolto possono sostenere chi focalizza nel ricordare che lui non è la sua rabbia, né la sua paura, non la sua tensione o il suo giudizio, che lui non è nessuno dei suoi stati temporanei.

Ma cosa è chi focalizza se non è nessuno dei suoi stati temporanei? Barbara McGavin ed io chiamiamo questo Presenza: lo stato di essere capaci di stare con qualsiasi cosa, senza prendere posizione o giudicare, senza un programma. Le qualità della Presenza includono: compassione, lasciar essere, spaziosità, apertura, accettazione, pazienza, gentilezza…

Gendlin chiama questo “essere amichevoli verso il felt sense e capaci di ricevere amichevolmente qualsiasi cosa provenga da lì” (1996, p. 55). McMahon e Campbell lo chiamano “la presenza affettuosa che accudisce” (p. 11). Si tratta chiaramente di qualcosa che aiuta il focusing ad avere luogo. Come può un ascoltatore far si che si generi la Presenza?

Quello che l’ascoltatore fa è fare il riflesso della presenza di chi focalizza attraverso quello che dice, rendendola esplicita. Ogni volta che chi focalizza descrive qualcosa che sta esperendo, si comprende che la sta esperendo, la sta sentendo. Rendendo esplicita questa azione, chi ascolta conferma, supporta ed approfondisce l’esperienza di Presenza di chi focalizza. Consigliamo di fare tutto questo con le parole: “Stai sentendo…”, benché vadano bene anche “Sei consapevole di…”, “Stai notando…” e in casi appropriati “Ti stai rendendo conto che …”.

F: Questo punto del mio stomaco è stretto dalla rabbia.

L: Stai sentendo che questo punto del tuo stomaco è stretto dalla rabbia.

F: Ho una fascia che mi stringe attraverso il petto.

L: Stai sentendo qualcosa nel petto che è come una fascia stretta.

F: Oh, vedo! Questa parte crede che nessuno potrà aiutarla mai.

L: Ti stai rendendo conto che quella parte crede che nessuno potrà mai aiutarla.

Quando chi focalizza non si sente empatico o paziente o accettante verso qualche parte di sé, non è in stato di Presenza. Eppure, la Presenza è sempre lì, disponibile, oltre le identificazioni temporanee. Quindi, se l’ascoltatore riflette quello che dice chi focalizza come se  questi si trovasse in stato di Presenza, ciò funziona come una sorta di sottile invito – che, come tutti gli inviti, può essere rifiutato – a trovare di nuovo la Presenza.

F: Non mi piace questa parte pesante di me.

L: Stai sentendo una parte che si sente pesante e senti un’altra parte a cui questa non piace.

F: Sono arrabbiato!

L: Stai sentendo qualcosa in te che è arrabbiato.

F: No, IO sono arrabbiato!

L: Oh, TU SEI arrabbiato!

Il combinare questo “stai sentendo” con “qualcosa in te” è ciò che Barbara McGavin ed io chiamiamo “Presenza che ascolta”. L’effetto è spesso quello di mettere in luce che ci sono due parti, e di offrire a chi focalizza l’opportunità di riconoscere e di stare con l’una o l’altra o con entrambe.

F:Questa parte ha bisogno di cambiare più in fretta.

L: Stai sentendo qualcosa in te che ha bisogno che questa parte cambi più in fretta.

F: È spaventoso.

L: Stai sentendo qualcosa in te che si sente spaventata, e qualcosa che questa parte trova spaventoso.

Il potere dell’ascolto

La mia personale opinione è che l’ascolto sia usato troppo poco e troppo poco apprezzato. Sento che quando l’ascolto viene usato con sensibilità ed abilità, non è necessaria nessuna guida, o serve solo in piccola parte, soprattutto tra partner di focusing (persone che già conoscono il focusing). Quando chi accompagna usa soltanto o soprattutto l’ascolto  e nessun tipo di guida, rispetta il processo di chi focalizza rimanendone fuori, ed aumenta la sensazione di potere del suo compagno. Inoltre, diminuisce la sensazione  di chi accompagna di essere responsabile della sessione. Nonostante tutto quello che abbiamo detto sui doni dell’ascolto efficace, si tratta pur sempre della sessione di chi focalizza.

Potremmo perfino ragionare sulla possibilità che la necessità di una guida sia indicativa di un ascolto mancato. Oppure, per metterla in modo più positivo, quando l’ascolto è ben fatto, c’è meno bisogno di guida.

Un esempio di ciò si è verificato di recente in una sessione di training nel mio Centro a Berkeley. La sessione sembrava andare bene, eccettuato un momento in cui chi focalizzava si sentì bloccato ed ebbe bisogno dell’aiuto dell’insegnante. Nella discussione che seguì, tornammo a quel momento e ci chiedemmo se chi ascoltava avrebbe potuto fare qualcosa, usando solo l’ascolto, per essere di aiuto in quella circostanza. Quello che scoprimmo fu che c’era ben poco da fare nel momento in cui chi focalizzava si sentì bloccato, ma, andando ai momenti  precedenti della sessione, a quello che accadde subito prima che ebbe luogo il blocco, ci accorgemmo che chi ascoltava aveva mancato di ripetere una sensazione corporea percepita in quel momento, e potemmo far risalire quel senso di “blocco” direttamente a quella mancanza.

F: Sento una certa pesantezza sulle spalle e sulle braccia. Potrebbe avere a che fare con il portare qualcosa, una specie di peso.

L: Qualcosa in te sembra trasportare una specie di peso.

F: Sì, qualcosa nelle spalle e nelle braccia. Ecco dove lo sento. Sto salutando questa sensazione di portare un peso e chiedendole di dirmi di più su quello che si sente come un peso. (lunga pausa) Sento un’altra parte di me che vuole accelerare questo processo… (A questo punto l’insegnante ha offerto il suo aiuto, invitando chi focalizzava a sedere insieme a quello che era lì con curiosità interessata e a sentire dal suo punto di vista prima di fare domande di qualsiasi genere.)

Più tardi, chi focalizzava si trovò d’accordo sul fatto che la frase in corsivo avrebbe dovuto essere ripetuta, qualcosa come: “Stai sentendo qualcosa di simile ad una pesantezza nelle spalle e nelle braccia…”, il che la avrebbe aiutata a stare in contatto più diretto con la sensazione percepita, piuttosto che spostarsi sui suoi pensieri relativi ad essa.

Una bellissima metafora sull’ascolto si trova in una bozza del libro di Eugene Gendlin sul focusing e la psicoterapia. Non sono riuscita a trovarla nel testo pubblicato, qui cito dalla bozza:

[L’ascolto] è qualcosa come aumentare il movimento di un volano. La ruota si sta già muovendo e vuoi aggiungerle del movimento. Perciò, non la fermi dapprima per poterla spingere poi. Le darai dei brevi impulsi che possono accompagnarsi al movimento che lei ha già. (p. 372)

L’ascolto è come toccare una ruota che sta già girando, nella sua stessa direzione. Non sembra che accada nulla di impressionante, eppure si è creato uno spazio per il più grande di tutti i miracoli umani: è molto più grande quello che accade quando lasciamo che quello che c’è trovi la sua maniera per rivelarsi, rispetto a quando cerchiamo di fare in modo che qualcosa accada.

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